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Semiotropie. Eredità di Barthes
A cura di Giuseppe Crivella




Bernard Faucon*
di Roland Barthes

(Traduzione di Giuseppe Crivella)

16 febbraio 2016




Bernard Faucon ha fotografato dei ragazzi (reali e/o simulati). Tuttavia il motivo (la questione) della sua impresa non è né l’amore per i fanciulli né l’arte fotografica. O almeno, per il turbamento che ci comunicano queste immagini, per il vero enigma che esse lasciano in sospeso o immobilizzano sotto i nostri occhi che non possono distaccarsene senza per questo intravederne il segreto, noi dubitiamo (infine) che nella Fotografia, grande Sconosciuta del mondo moderno, vi sia da un lato il soggetto e dall'altro una maniera; in breve noi dubitiamo che la Fotografia non sia null'altro che (idea tuttavia usuale) che la congiunzione di un argomento e di un’arte.



Tale dubbio è violento, in proporzione allo stupore che suscitano in noi queste fotografie. E queste parole sono già insufficienti, perché ci lasciano prigionieri di una tendenza propria a noi Occidentali: ricondurre ogni mutazione della nostra identità al “patetico”. Una parola orientale (giapponese) converrebbe di più: il satori: scossa, affondo, colpo improvviso che attraversa bruscamente la disciplina Zen e l'illumina del suo vuoto. Non si può dire ciò che è il satori, per le fotografie di Bernard Faucon ma per le fotografie di Bernard Faucon si può indovinare da quale ragione possa venire: la regione della eterologia o della frizione di linguaggi differenti, connubio di specie naturali eterogenee: dei manichini, oggetti già colti secondo il loro statuto stesso, sono una seconda volta sorpresi in mezzo a una folla di oggetti reali, familiari, logori, graffiati (bugie, bottiglie, fette di melone, letti disfatti, bilancieri in movimento, ecc.) in un contesto il cui romanticismo esalta il naturale (vastità delle colline, dei giardini, del mare), impegnati in scene quotidiane di giochi; o ancora, in un modo più insidioso, l’eterologia deriva dal fatto che l'espressione euforica dei volti di cera è in qualche modo perpetuata indipendentemente dalle azioni a cui i manichini si dedicano: che cosa di più perturbante di un'aria che persiste e smentisce la legge dell'espressione, ovvero della corrispondenza dell'interno e dell'esterno, dalla causa e dell'effetto?



I corpi artificiali, statue, manichini, automi, androidi hanno sempre turbato gli uomini: è, letteralmente, un mito. Il lavoro di Bernard Faucon è evidentemente una variazione di questo mito. Ecco come io avverto la dialettica di questa variazione: i manichini di Bernard Faucon sembrano dapprima imporre due immagini, in funzione della loro origine: l’immagine dell’infanzia [...] e l’immagine della vetrina (di negozio) da dove questi manichini sono tratti. Ora queste immagini sono messe in fallo [1], rinnegate: l’infanzia, età mitica della freschezza, della spontaneità, della purezza è qui compromessa con l’artificio dei corpi fissati (là dove i loro gesti fossero “vivi”, i loro occhi restano fissi); e la vetrina, scatola di vetro, è interamente aperta sulla natura, la casa, la camera; tramite l’ambientazione naturale, tramite l’equilibrismo delle pose, Bernard Faucon «devitrinizza» i suoi manichini. Allora si produce un rovesciamento enigmatico: il corpo vero, che appare in certe scene (come vittima), si distingue appena dai manichini a cui esso è mescolato, fa dubitare di una natura carnale: ciò che separa il vero dal fittizio è di una tenuità estrema, perturbante: il vero non va cercato dalla parte della «realtà», ma dal lato dell’arte, concepita non come valore espressivo, umanistico, ma come fondamento — o compimento — dell’artificio. Il corpo vero ha un «ruolo» impossibile ed è in ciò che esso dimostra la verità. Baudelaire aveva forse presentito questa dialettica allorché parlava della «verità enfatica del gesto nelle grandi circostanze della vita».



Bernard Faucon sistema la scena che sta per fotografare. Produce esattamente un tableau vivant. Ora, questa scena immobile egli la consegna all’arte stessa dell’Immobile, alla Fotografia (non si farà mai progredire la teoria della Fotografia — oggi bloccata — finché ci si ostinerà a fingere che tale arte ha la missione di rendere “vivo”, “animato” ciò che non lo è). Così viene a istituirsi un circuito il cui senso è irreperibile. Bernard Faucon non fotografa un tableau vivant: produce fotografia sdoppiata in tableau vivant: egli accumula due immobilità. Invece di dividere l’Immagine (come si fa ordinariamente) in contenuto e forma, referente e significato, egli lascia che due forme vengano ad ammassarsi, due significanti; facendo ciò egli smentisce l'Immagine stessa che, etimologicamente, per la sua radice indo-europea (yem/im) rimanda a un «frutto doppio»; egli produce una unità appena sopportabile, contro-natura, ovvero soprannaturale. Nella sua derisione stessa, il tableau vivant fotografato richiama con forza un certo pensiero dell'Immortale: questi infra-corpi, il cui arresto è rinforzato da tutto l’artificio di vita che li circonda, sono colti dall’artista come se avessero la vocazione di essere resuscitati.


* In Zoom 1978. Cfr. OC V, pp. 471-474.

[1] Barthes usa qui /déjouer/, termine di difficilissima resa in italiano: la locuzione francese più chiara per una buona intelligenza del lemma è déjouer un complot, nel senso di smascherare, far fallire, sventare un complotto. Forzando un po' la mano in italiano potremmo proporre: queste immagini sono sventate nel loro proposito di ingannarci [N.d.T.].



B. Faucon, la barca

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